Teoria del capitale e politica monetaria in Keynes

 

Fonte: HomoLaicus

 

 

 Teoria del capitale e politica monetaria in Keynes

Introduzione: la vendetta di Keynes

Se fosse un vecchio film western, la storia del pensiero di Keynes sarebbe giunto, all’inizio del ventesimo secolo, all’entrata in scena della cavalleria. L’idea che la mano pubblica possa rovesciare o almeno completare l’operare della mano invisibile era in via di definitiva sepoltura, e con essa ogni riferimento seppur blando a Keynes e al keynesismo, quando l’esplodere della crisi finanziaria ed economica mondiale, la più grave dal ‘29, ha scombinato la situazione, mettendo in discussione i dogmi più resistenti formatisi negli ultimi decenni.

Persino gli economisti si sono resi conto che “the best policy is not policy at all” è uno slogan utile a vincere il premio Nobel, ma inutile, completamente inutile, per analizzare i problemi economici reali e soprattutto per prospettarne una via di uscita[1]. Così la sepoltura di Keynes è stata quantomeno rimandata, forse a tempo indeterminato.

Di per sé questa sconfessione planetaria del laissez faire non riabilita certo Keynes e le sue incongruenze teoriche, ma almeno costringe a riflettere con più attenzione sul suo pensiero. Questo breve lavoro cercherà per l’appunto di analizzare le basi teoriche da cui l’economista di Cambridge partì per formulare quelle prescrizioni di policy che lo resero universalmente noto.

Lo scopo fondamentale di tutta l’opera di Keynes era quello di convincere che le vecchie idee e le vecchie ricette non funzionavano più, anche a costo di incoerenze e aporie teoriche fino al celebre detto “a lungo termine siamo tutti morti”, con cui in un certo senso si liberava di ogni critica alle proprie proposte.

 Keynes e la teoria neoclassica del capitale. Un compromesso poco duraturo.

Keynes ha sempre ammesso di essere stato educato e formato nella “cittadella” dell’economia, in quella Cambridge che allora costituiva la quintessenza dell’ortodossia economica. In tutte le sue opere possiamo vedere un tentativo di allontanarsi dalla concezione dominante che comunque costituiva la base di partenza della sua analisi. Non fa eccezione la General Theory, che contiene un miscuglio di assunzioni ortodosse e di conclusioni eretiche. Da nessuna parte questa incongruenza è più visibile che nell’analisi dei fondamenti della teoria.

Le basi di una teoria che aspiri ad analizzare il processo produttivo capitalistico sono necessariamente la teoria del valore e della distribuzione e la teoria del capitale. È quindi proprio analizzando queste teorie che si possono trovare le più forti contraddizioni di Keynes. Senz’altro la sua analisi partiva da una critica radicale dei ‘classici’, ovvero di quegli economisti che accettavano la legge di Say, tuttavia Keynes non riuscì a rompere con questa tradizione. Soprattutto non riuscì a proporre un’alternativa abbastanza robusta da sostituirla. Lo dimostra il fatto che i suoi allievi che non tornarono all’ortodossia cercarono in altri filoni la solidità e la coerenza analitica che mancavano nelle teorie di Keynes.

Nonostante la sua enorme complicazione formale, l’attuale teoria economica dominante, al fondo, non va oltre le intuizioni dei primi economisti liberali riguardo al ruolo delle variazioni dei prezzi nell’equilibrare i mercati. In ogni mercato il prezzo si muove nella direzione ‘giusta’, ovvero in modo da eliminare l’eccesso eventuale di domanda e offerta. Poiché questo avviene in ogni mercato, una situazione di sovrapproduzione generale è impossibile (legge di Say).

In particolare, nei due mercati più importanti, quelli dei “fattori produttivi”, il prezzo, ovvero, rispettivamente, salario e interesse, si muove in modo da combinare efficientemente domanda e offerta di lavoro, risparmi e investimenti. Un eccesso di offerta di lavoro, attraverso una diminuzione dei salari, evita l’insorgere della disoccupazione involontaria[2]. Allo stesso modo, un eccesso di risparmio, tramutandosi in una riduzione del saggio d’interesse (per mezzo di considerazioni sulla ‘time preference’) conduce a un ristabilirsi dell’equilibrio.

Come ricordato, Keynes non si opponeva del tutto alla teoria del capitale dominante, tuttavia rifiutava esplicitamente la legge di Say. Egli negava che il tasso d’interesse fosse da considerarsi determinato dalla domanda e offerta di risparmio perché l’ammontare del risparmio è esso stesso funzione del reddito complessivo e della sua distribuzione. Il nesso causale è dunque rovesciato: è l’investimento la variabile indipendente e l’interesse è un saggio monetario che dipende dalla politica monetaria e dall’atteggiamento del pubblico verso il denaro.

Per cercare di fare chiarezza sui punti fin qui sollevati partiremo dalla domanda di moneta, un argomento su cui Keynes diede a più riprese contributi di prim’ordine. Passeremo poi alla teoria del capitale e alla politica economica.

La moneta e il capitale

Nello schema marginalista la moneta non gioca nessun ruolo. Essa è un velo, una finzione cartacea utile per i servizi che offre nella circolazione delle merci. Non offrendo alcuna utilità diretta, viene usata dagli agenti solo come mezzo di pagamento e viene detenuta solo a scopo di transazione. Keynes vi aggiunse l’aspetto speculativo, modificandone radicalmente il ruolo. La moneta non è né un velo né neutrale in Keynes, essa è un’attività al pari delle altre. Il futuro è incerto, nessuno sa che cosa succederà ai tassi tra qualche mese o anno. In presenza di incertezza, sorge la preferenza per la liquidità, poiché la moneta è l’asset più liquido (e meno remunerativo).

Essendo la moneta un’attività, questa preferenza è pur sempre una funzione del livello del tasso d’interesse. Da un lato, essa pone un limite al funzionamento della politica monetaria (se i tassi scendono troppo, si cade in una situazione di trappola della liquidità, in cui il pubblico è disposto a detenere qualunque quantità di moneta offerta[3]), dall’altro è strettamente legata alle aspettative e dunque può essere ‘manovrata’ attraverso di esse. Se il pubblico è spinto ad aspettarsi un rialzo dei tassi, per esempio per il surriscaldarsi dell’economia, ridurrà il tesoreggiamento per guadagnare sull’aumento del saggio d’interesse. In sostanza per far variare la quantità di moneta tesaurizzata occorre agire:

a) sul tasso d’interesse (l’offerta di moneta)

b) sulla velocità di circolazione

c) sull’aumento del reddito

d) sulle aspettative, ovvero su come il pubblico interpreterà la politica monetaria. In sintesi, la moneta ha un ruolo di fondo di valori che elimina il legame diretto risparmi-investimenti: le divergenze tra le decisioni di investire e il livello di risparmio di pieno impiego non si equilibrano semplicemente con la variazione dei tassi, anche perché il sistema creditizio ha una sua capacità autonoma di creazione di moneta. In un’economia monetaria, la separazione tra le decisioni di risparmio e investimento è evidente, tuttavia, la teoria ortodossia, nel modo più organico con la teoria del tasso d’interesse “naturale” di Wicksell, cercava di dimostrare che l’elasticità del mercato dei beni capitali aggiustava tutto. La rottura centrale è dunque sul saggio d’interesse.

Abbiamo così delineato i fattori alla base della domanda di moneta. Tuttavia occorre ancora spiegare la remunerazione del fattore capitale per poter valutare il ruolo complessivo che secondo Keynes è affidato alla politica monetaria.

Secondo Keynes, quando un investitore deve decidere se investire o meno, considera la differenza che c’è tra quanto costa l’investimento, ovvero il tasso d’interesse, e quanto rende, ovvero quella che chiamò efficienza marginale del capitale. Con essa intendeva non la produttività fisica, ma il guadagno relativo legato alla scarsità sociale del fattore in un dato periodo di tempo.

L’efficienza marginale del capitale è dunque il saggio di sconto che attualizza il valore dell’asset considerato rendendolo uguale al suo prezzo d’offerta. Si tratta di un efficienza individuale del bene capitale, non di un’efficienza generale. E’ chiaro già da questa definizione che le aspettative giocano un certo ruolo anche qui. Infatti nel calcolo attuariale rientra una previsione sui tassi futuri attesi, e dunque sullo stato delle aspettative a lungo termine.

Dietro a questa idea di eguaglianza tra efficienza marginale del capitale e tasso d’interesse, c’è l’idea di Keynes di un mercato organizzato in cui l’operare degli arbitraggisti impedisce situazioni di guadagno certo per lunghi periodi.

In sintesi, i capitalisti investono finché l’efficienza marginale del capitale non eguaglia il tasso d’interesse. Immaginando di investire in ordine decrescente di efficienza, è ovvio che una riduzione dei tassi aumenta gli investimenti. Ma Keynes, a questo che può sembrare un meccanismo ‘classico’, pone almeno due obiezioni. La prima è che i rendimenti futuri sono incerti e dunque l’attualizzazione è aleatoria. La seconda è che finché una quota del fattore è inattiva, non c’è produttività marginale decrescente. Di nuovo, vediamo come l’instabilità delle aspettative può risultare in effetti ‘perversi’ al variare del tasso d’interesse.

Da cosa è dato il tasso d’interesse? Dalla scarsità del capitale. Ma soprattutto, spiegava Keynes, è tale scarsità che è determinata dai tassi. Abbassare i tassi riduce la scarsità e aiuta gli investimenti, non viceversa. L’idea neoclassica di un capitale produttivo in senso fisico (produttività marginale) viene rigettata. Inoltre viene anche rifiutata l’idea che un investitore possa muoversi lungo la frontiera delle tecnologie (ovvero del rapporto di intensità capitalistica) al variare dei tassi e dei salari. È piuttosto nella fase del rimpiazzo dei beni capitali che il tasso d’interesse entra come fattore decisivo nella scelta della tecnica produttiva.

La teoria del capitale

Nell’analisi classica il valore delle merci è determinato dai costi di produzione. Il costo del capitale non è altro che l’insieme dei costi socialmente necessari per rimpiazzare il mezzo di produzione in questione. I profitti derivano da una caratteristica storico-sociale del sistema: la divisione tra mezzi di produzione e classe produttiva. In Marx questa distinzione appare ancora più chiaramente e il profitto è la realizzazione del pluslavoro, ovvero del lavoro che la classe operaia è costretta ad erogare gratuitamente e di cui si appropriano i capitalisti, possessori dei mezzi di produzione.

Negli economisti neoclassici il capitale, come ogni altro fattore produttivo, ha una remunerazione ‘fisica’ basata sulla sua produttività marginale. Il fatto è che mentre è abbastanza agevole capire che cosa sia la produttività del lavoro nessuna teoria del capitale coerente è mai stata prodotta finora. Le due proposte centrali, quella di Walras che partiva dai singoli beni capitali, e quella di Wicksell che partiva dal capitale in termini di valore, si sono dimostrate insostenibili e logicamente viziate.

Sebbene ai tempi di Keynes questo dibattito non fosse stato sviluppato appieno, senz’altro l’economista britannico conosceva le critiche mosse alla teoria del capitale neoclassica, soprattutto per la sua amicizia con Sraffa che a Cambridge stava ponendo le basi per un recupero teorico dell’economia ricardiana. Keynes così, doveva elaborare una teoria del capitale avendo contezza delle ineliminabili debolezze della dottrina marginalista.

Quale teoria del capitale emerge dalla General Theory? Keynes non affronta mai direttamente la questione. Piuttosto discute del problema dei beni capitali sempre dibattendo del ruolo della moneta e delle variazioni dei tassi. Come si è detto, Keynes propose l’idea di efficienza marginale del capitale, dopo aver usato in un primo tempo la definizione di produttività marginale, proprio per distinguere la propria concezione da quella neoclassica.

Tuttavia, Keynes non riuscì ad affrontare e risolvere il problema. In realtà, nella General Theory troviamo una efficace descrizione di come funzionano i mercati finanziari e monetari, e dunque di come l’arbitraggio lega valore della moneta, tassi e remunerazione dei diversi beni capitali, ma mai una spiegazione della natura del profitto.

Gli economisti ortodossi successivi definirono questa mancanza come una ‘assenza di microfondazioni’: Keynes affrontò sempre i problemi della domanda complessiva, del mercato risparmi-investimenti ecc., senza verificare se la sua analisi contrastava con le ipotesi fondanti della teoria neoclassica.

Che si prenda per buona o meno l’impostazione neoclassica, è indubbio che una teoria del processo produttivo nel suo complesso deve scaturire dalle ipotesi che fondano la teoria diciamo così ‘pura’.

Il fatto che Keynes si disinteressasse di questi aspetti era indice della crisi in cui versava la teoria microeconomica, ovvero la teoria economica per eccellenza, già allora. Ad ogni modo, questa carenza di analisi fa sì che, in Keynes, nell’analisi delle scelte di investimento, non appaia evidente quale sia uno dei corni della valutazione: il rendimento.

Se analizzando la legge di Say Keynes ha dimostrato che la spiegazione in termini di domanda e offerta di fattori produttivi non ha senso, tuttavia non è riuscito a porre le basi di una spiegazione alternativa. Parlò, discutendo della scarsità, di “potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità di capitale”, senza però analizzare realmente che cosa fosse questa scarsità[4].

La teoria neoclassica ritiene che ogni merce sia producibile impiegando quantità variabili dei diversi fattori produttivi. La proporzione degli ingredienti finali dipenderà dallo stato dei diversi mercati e dunque dalla domanda e l’offerta. Keynes attaccò questo meccanismo soprattutto nel mercato del lavoro.

La produttività fisica del capitale in Keynes non esiste. Nella teoria tradizionale, le decisioni di investimento si adattano alle variazioni del risparmio a sua volta connesso ai tassi. Keynes sembrò accettare parzialmente questa teoria con la nozione citata di efficienza marginale del capitale, ma rifiutò il ruolo del tasso d’interesse.

Le critiche che Keynes fece alla teoria del capitale neoclassica riguardarono sostanzialmente alcuni aspetti secondari della teoria, come l’incertezza delle aspettative, la rigidità di alcuni prezzi, la non perfetta riproporzionabilità del processo produttivo. Invece l’aspetto fondamentale, ovvero l’impossibilità di spiegare alcun movimento rilevante dell’economia per mezzo di domanda e offerta, restò come in un limbo. Ne venne fuori una teoria mista di pregiudizi neoclassici e intuizioni eretiche, che finì sotto attacco da tutte le parti.

La teoria della distribuzione

La teoria dei fattori produttivi marginalista è anche una teoria della distribuzione. Gli economisti neoclassici non sono mai riusciti a formulare una teoria coerente a riguardo, ovvero una teoria che salvaguardasse il rendimento uniforme dei beni capitali e il movimento nella direzione ‘giusta’ nella variazione dei prezzi.

Alla fine, tutte le teorie della distribuzione neoclassiche si perdono in ragionamenti circolari: i prezzi sono necessari per definire il valore dei beni capitali e viceversa (lo stesso problema non si pone per i fattori misurabili in termini fisici: lavoro e terra[5]).

A differenza del fattore lavoro, un bene capitale è il risultato di un investimento e dunque, nella teoria neoclassica, di un certo ammontare di risparmio che si è cristallizzato in un certo asset. Di qui l’idea che le variazioni dei tassi influenzino l’investimento e il valore dei beni capitali.

A tutto ciò, l’analisi della moneta fornita da Keynes assesta un colpo mortale. In ultima analisi, la distribuzione del reddito, ovvero il livello dei salari e dell’occupazione, entra nelle decisioni di investimento, non ne è conseguenza.

L’introduzione del fattore capitale non è coerente con gli assunti della teoria neoclassica della distribuzione. Non rompendo con questa tradizione, Keynes non riuscì perciò a fondare le sue proposte alternative. I noti problemi del ‘ritorno delle tecniche’ hanno posto definitivamente in luce queste debolezze.

Domanda e offerta di fattori produttivi non possono spiegare la distribuzione del reddito in una società capitalistica, qualunque sia la precisione con cui gli agenti prevedono il futuro.

Keynes interpretò i fattori monetari, che pure sono importanti, come un disturbo dell’equilibrio che dipendeva da meccanismi apparentemente ortodossi. Almeno all’inizio, Keynes di fatto dipinse una situazione in cui vi sarebbe una tendenza all’equilibrio che le autorità devono assecondare aggiustando l’offerta di moneta.

Ma anche in tal caso, le ricette di policy, che pure erano sostanzialmente adatte ai problemi che si dovevano affrontare, non erano basate su una teoria coerente del capitale.

Come si può accrescere qualcosa la cui misurazione è impossibile? Potrebbero i fisici aumentare il passaggio di corrente elettrica in un filo elettrico se non sapessero misurare questa corrente? Ovviamente no, e gli economisti si trovano proprio in questa situazione, dato che i metodi con cui la teoria ortodossa pretende di misurare il valore dei beni capitali sono tutti logicamente infondati.

Certamente Keynes era almeno parzialmente conscio di queste debolezze e di questi incoerenze. Ma, come ricordato, non se ne preoccupava. Il suo scopo non era fornire una misura coerente del capitale ma proporre delle nuove strade con cui tentare di uscire dalla depressione e dalla deflazione. In definitiva, il mercato dei capitali in Keynes esiste, ha un ruolo centrale per comprendere il ciclo economico e i meccanismi di trasmissione della politica monetaria, ma non ha una radice teorica coerente.

La fiducia e la politica monetaria

Una volta compreso il meccanismo che sposta i flussi di capitale e che anima il mercato risparmi-investimenti, si può capire quale importanza Keynes desse alla ‘fiducia’. La grandezza degli investimenti dipende, come ricordato, dalla relazione tra tassi ed efficienza marginale.

Perciò diviene fondamentale lo stato della fiducia, la psicologia, gli “animal spirits”. Ognuno entra sul mercato cercando di capire come si comporteranno gli altri. Questo provoca ondate di vendite e acquisti che rendono i mercati, soprattutto quelli finanziari, molto instabili.

Il ruolo attribuito da Keynes alle aspettative è criticato per ragioni diverse. Secondo alcuni, esse introducono un elemento di indeterminazione soggettiva che distrugge ogni scientificità della teoria; secondo altri le aspettative incerte sono incompatibili con l’ipotesi di comportamento razionale del consumatore. A entrambe queste critiche Keynes avrebbe risposto con la celebre distinzione tra rischio e incertezza.

E’ bensì vero che nel lungo periodo ciò che conta sono le posizioni ‘normali’ dell’economia e che, una volta effettuati tutti gli aggiustamenti, le aspettative degli agenti sono corrette, ma nessuno sa veramente che cosa accada nell’immediato futuro e come già osservo sin dal suo saggio sulla riforma monetaria:

“Nel lungo periodo siamo tutti morti. Gli economisti si assegnano un compito troppo agevole e troppo poco utile se, nei periodi di tempesta, riescono a dirci solamente che una volta passato l’uragano, il mare sarà di nuovo piatto.”

Per i classici, tutte le turbolenze di breve periodo, compreso il ruolo di domanda e offerta, si bilanciavano sostanzialmente nel medio e lungo periodo e potevano dunque, almeno a un primo livello di analisi, essere trascurate. Certamente, nell’analisi di breve periodo, le aspettative hanno un certo peso. Il policy-maker, poiché nessuno ha in realtà una conoscenza perfetta del futuro, può agire per cercare di stimolare l’economia.

Tuttavia, occorre analizzare la natura e la fonte di queste aspettative. Gli ‘animal spirits’, o il ‘market sentiment’, come gli analisti finanziari dicono oggi, non sono altro che la risultante della direzione in cui si muove l’economia reale. Senza entrare nei meccanismi di formazione delle aspettative, è però ovvio che se si decide di investire meno è perché si sta consumando e vendendo meno. Significa questo che si possono trascurare le considerazioni sulle aspettative? Certamente no. Pur essendo determinate in ultima analisi dall’andamento dell’economia reale, esse acquisiscono una relativa indipendenza e interagiscono con l’economia reale.

Questa interazione assume particolare rilievo sui mercati finanziari, dove basta la previsione di un accadimento futuro per il verificarsi di poderosi movimenti a prima vista irrazionali. E d’altronde, chiunque abbia visitato un floor di una borsa avrà visto gli animal spirits nella loro forma più diretta e cruda. Ma l’indipendenza è, come detto, solo relativa.

La teoria deve saper cogliere l’autonomia del fattore ‘fiducia’ ma solo nel contesto di una spiegazione generale del funzionamento ciclico del capitalismo. Altrimenti si può credere che la politica monetaria agisca nel vuoto, che la ‘fiducia’ possa essere creata senza i necessari presupposti reali e si indirizza la teoria verso una visione soggettivista del funzionamento del capitalismo.

Secondo Keynes, in un periodo recessivo lo Stato dovrebbe agire in una serie di modi per ristabilire la fiducia degli investitori, innanzitutto rilanciando la produzione e abbassando i tassi d’interesse. Ma indipendentemente dalla scelta sugli strumenti concreti e sugli obiettivi ‘intermedi’, come vengono definiti, il target finale è proprio la fiducia. Se il pubblico ha fiducia che la manovra intrapresa dal governo funzionerà, e ricomincerà dunque a consumare ed investire, l’economia ripartirà indipendentemente dalle qualità intrinseche della manovra stessa.

In sé, la manovra sui tassi, sulla liquidità, sulla politica fiscale, servono ad aumentare la domanda complessiva, ma il punto centrale è la credibilità della manovra. Se il pubblico teme l’inefficacia della politica, la politica sarà effettivamente inefficace. La ‘manovra sui tassi’ non è dunque una panacea.

Innanzitutto si deve inserire in un processo di schiacciamento progressivo della rendita finanziaria, senza il quale l’abbassamento dei tassi sarà di breve durata; in secondo luogo deve trovare supporto nella risposta degli investitori. Un basso tasso d’interesse non è di per sé sufficiente a rilanciare gli investimenti se il saggio di profitto atteso è basso. E questo saggio non deriva dalla produttività fisica delle nuove macchine ma semplicemente da quanto il capitalista riuscirà a vendere, ovvero dai problemi che Marx avrebbe definito di realizzo del profitto. Un basso tasso d’interesse che si accompagni a un calo dei consumi, lungi dal rilanciare l’economia, potrebbe spingerla verso la deflazione. E’ la già citata situazione di trappola della liquidità.

Incoerenze ed esortazioni

La prima guerra mondiale distrusse il gold standard e i meccanismi di aggiustamento automatico dell’economia, o forse, sarebbe meglio dire, ne dimostrò, in modo definitivo, i limiti. La disoccupazione in Inghilterra, ma non solo, raggiunse un quarto della forza-lavoro. Il caos monetario internazionale, le svalutazioni concorrenziali, il protezionismo e una politica monetaria deflazionista concorrevano al disastro. Il sistema rimaneva in un equilibrio stabile di sottoccupazione.

In tutto ciò, l’ortodossia liberale dell’epoca, che peraltro regna ancora oggi, sosteneva che non bisognava fare nulla. Le spese del governo non avrebbero migliorato alcunché, essendo comunque finanziate dai privati, la disoccupazione era esclusivamente volontaria ecc.

Keynes assunse una posizione critica verso l’ortodossia molto prima di formulare le sue tesi in modo compiuto. Ad esempio, nel famoso scritto The End of Laissez Faire (1926) Keynes sostenne la necessità di abbandonare il liberismo classico: lo Stato doveva acquisire un ruolo essenziale. Per quanto ricordato prima sulla moneta, il pubblico non domanda la moneta solo per scopo transattivo, ma anche in base allo stato di fiducia, ovvero alle attese sui tassi e sulla produzione complessiva.

Da ciò ne discende che la banca centrale non deve seguire la teoria quantitativa della moneta per fissare gli obiettivi di offerta di moneta, ma le necessità di finanziamento dei nuovi investimenti. Ciò crea inflazione? In un’epoca di durissima deflazione, come gli anni Trenta, un simile pericolo sembrava ridicolo. Inoltre, l’aumento complessivo del livello dei prezzi permetterebbe, secondo Keynes, di abbassare i salari reali perché le parti sociali contrattano solo un salario monetario ed è ben più difficile abbassare i salari per via diretta.

Tuttavia, anche in questo caso il meccanismo può valere in un’ottica di breve periodo. In media, l’inflazione attesa e l’inflazione realizzata devono coincidere. Ad ogni modo, le autorità monetarie possono abbassare il saggio d’interesse espandendo l’offerta di moneta. In tal modo incoraggiano gli investimenti.

L’aumento della domanda di moneta e di spesa pubblica accresce il consumo (moltiplicatore) e ciò accresce i profitti. Questi a loro volta alimentano la fiducia degli imprenditori e li inducono ad accrescere l’occupazione. Al fondo di tutto ciò c’è l’idea di Keynes che la produzione si adegua al livello atteso di domanda complessiva. Lo Stato deve dunque intervenire sulle decisioni di spesa, convincendo il pubblico a spendere di più e spendendo esso stesso. In tutto ciò, la variazione relativa dei prezzi conta ben poco e dunque il meccanismo di aggiustamento principe della scuola marginalista è inutile.

Abbiamo descritto il meccanismo definito tradizionalmente “keynesiano” di condurre la politica monetaria. Tuttavia occorre ricordare che col passare del tempo, Keynes mostrò scetticismo riguardo all’efficacia della politica monetaria (per via del ruolo della speculazione, del legame solo indiretto tra offerta di moneta ‘pubblica’ e complessiva, del ruolo indipendente del canale creditizio, e infine delle attese degli investitori).

In sintesi, Keynes manifestò sempre più dubbi sulle capacità autoregolative del mercato. L’intervento indiretto dello Stato non bastava più a riportare la fiducia. Per questo giunse alla fine alle due famose proposte che riguardavano il livello degli investimenti (“socializzazione degli investimenti”) e la redistribuzione del reddito (“l’eutanasia del rentier”).

Sarebbe interessante chiedersi perché Keynes, che pure conosceva almeno sin dal 1928 le tesi che Sraffa esporrà poi in Produzione di merci a mezzo di merci, non ne fece uso per la ricostruzione teorica delle proprie proposte. La ragione è che temeva di non essere ascoltato. Il calcolo che fece fu che occorreva rompere con l’ortodossia il meno possibile di modo che i messaggi pratici, che erano la cosa che veramente gli stava a cuore, passassero come meno eretici possibile.

La ricostruzione teorica di Sraffa, che rompe completamente con le teorie della domanda e dell’offerta, avrebbe probabilmente relegato Keynes “nel mondo sotterraneo di Carlo Marx, di Silvio Gesell e del maggiore Douglas”, come disse nella General Theory, da cui mai avrebbe potuto spostare l’asse della politica economica mondiale. Questa è la ragione per cui l’opera massima di Keynes, pur piena di contraddizioni e incoerenze, ebbe un impatto grandioso, un impatto che nessun modello ‘microfondato’ e logicamente perfetto di oggi ha mai minimamente avvicinato.

In conclusione, la tesi centrale di Keynes è che il tasso d’interesse dipende dall’interazione tra la politica monetaria e le aspettative sui tassi futuri, ovvero, tra l’altro, sulla fiducia nell’efficacia della politica futura. Esso dunque “è un fenomeno altamente psicologico”.

Le uniche vere radici nelle variazioni dei tassi sono le opinioni prevalenti sul mercato. Un periodo di alti tassi, rende il capitale più ‘scarso’ e gli investimenti più difficili. L’efficienza marginale e gli animal spirits determinano il livello degli investimenti e dell’occupazione. Livelli di sottoccupazione stabili sono la conseguenza dell’interazione di questi fattori. La politica monetaria ha un ruolo nel ridare fiducia agli operatori economici, rilanciando i consumi e gli investimenti. Lo Stato, in definitiva, deve salvare il capitalismo dai suoi problemi.

Che i mercati non siano quelle banali macchine per comporre preferenze e tecnologie che si immagina l’ortodossia marginalista è sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, occorre penetrare nell’incoerenza centrale del pensiero keynesiano, la sua dipendenza da una teoria dei fattori produttivi insostenibile. Solo sostituendo queste debolezze si possono fondare solidamente politiche economiche alternative, che si basino sul ritorno alla piena occupazione anziché sul bilancio in pareggio. Per far questo occorre riprendere il filo interrotto dei classici e di Marx.

Bibliografia

  • Delli Gatti D., Moneta, accumulazione e ciclo, 1994
  • Dobb, Storia del pensiero economico, Editori Riuniti 1975
  • Garegnani P., Valore e domanda effettiva, Einaudi 1979
  • Hansen A. H., Guida allo studio di Keynes, Giannini 1977
  • Keynes J. M., Teoria generale dell’occupazione dell’interesse e della moneta, Utet 1978
  • Keynes John M., Come uscire dalla crisi, Laterza
  • Keynes John M., Corrispondenza politica, CEDAM
  • Keynes John M., La fine del «Laissez-faire» e altri scritti, Bollati Boringhieri
  • Keynes John M., Le conseguenze economiche della pace, Rosenberg & Sellier
  • Kalecki Michal; Keynes John M. , Contro la disoccupazione, Unicopli
  • Keynes John M.. L’assurdità dei sacrifici, Manifestolibri
  • Keynes John M., Trattato sulla probabilità, CLUEB
  • Lopokova Lydia – Keynes John M., Lydia e Maynard. Lettere (1923-1925), Archinto Kregel J. (a cura di), Nuove interpretazioni dell’analisi monetaria di Keynes, 1991

[1] Se è ingiusto speculare sulle disgrazie altrui, non si può fare a meno di osservare che il collasso dell’hedge fund LTCM avvenuto nel 1998, gestito tra l’altro da due economisti Nobel per l’economia, ha confermato, se ce ne fosse bisogno, che le lezioni della realtà si impongono con la cruda legge del fallimento, anche su questi elementi. Chi non ricorda la fine che fece Fischer quando osò speculare in Borsa? Decisamente l’economia ortodossa non è una buona base per arricchirsi sui mercati finanziari! (torna su)

[2] In questo lavoro non ci occuperemo della teoria dei salari di Keynes. Notiamo comunque che anche in tal caso l’economista britannico rimase letteralmente a metà strada, concedendo all’ortodossia che i salari dipendessero dalla produttività marginale del lavoro ma non che la disoccupazione fosse volontaria. Di qui il fraintendimento, davvero comune, secondo qui lo schema di Keynes coincide con quello neoclassico se solo si ipotizza la rigidità verso il basso dei salari. (torna su)

[3] Vale la pena osservare che se una volta questa situazione era considerata di scuola, l’esempio del Giappone nell’ultimo decennio ha dimostrato che è una situazione che può davvero darsi nella realtà. (torna su)

[4] Per esempio, in un noto brano della General Theory, Keynes scrive: “se il capitale diviene meno scarso, diminuirà il suo rendimento in eccedenza del costo, senza che il capitale sia divenuto meno produttivo, almeno in senso fisico. Sono quindi vicino alla dottrina pre-classica, che ogni cosa è prodotta dal lavoro…e dai risultati del lavoro passato, incorporati in attività capitali” (ediz italiana p. 376). In poche righe, troviamo indicazioni di diverse teorie confliggenti tra loro. Keynes sembra credere che il capitale sia produttivo anche in senso fisico, però si richiama alla concezione del capitale come lavoro incorporato; infine parla di scarsità come funzione del saggio d’interesse. Che tutto ciò non possa stare insieme va da sé. (torna su)

[5] Cfr., sul punto, P. Garegnani, Valore e domanda effettiva, par. 5. Einaudi

John Maynard Keynes

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John Maynard Keynes, primo Barone Keynes di Tilton (1883 – 1946), economista britannico.

  • È meglio che un uomo sia tiranno con il suo conto in banca che con i suoi concittadini.
  •  Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni necessari. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi. (citato in Sebastiano Maffettone, Ricchezza e nobiltà, in L’Espresso n. 47 anno LII del 30 novembre 2006)
  • L’importanza dei soldi deriva essenzialmente dall’essere un legame fra il presente ed il futuro.
  • Le idee degli economisti e dei filosofi politici, tanto quelle giuste quanto quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si creda. In realtà il mondo è governato da poco altro. Gli uomini pratici, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto. (da Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta)
  • Le persone timide in posizione di responsabilità sono un passivo per la nazione. (citato in Federico Caffè, Scritti quotidiani, 2007, intervista del 14 novembre 1979, p. 128)
  •  Lo studio della storia del pensiero è un preliminare necessario per raggiungere la libertà di pensiero.
  • Non so, infatti, cosa renda un uomo più conservatore: non sapere nulla del presente oppure nulla del passato.
  • Ma questo lungo termine è una guida fallace per gli affari correnti: nel lungo termine siamo tutti morti.
  • Non c’è niente di male nello sbagliarsi di tanto in tanto, specialmente se ti scoprono subito.
  • Non so cosa sia che rende un uomo più conservatore: non conoscere nulla tranne il presente, o nulla tranne il passato.
  • Ogni volta che risparmi 5 scellini togli a un uomo un giorno di lavoro.
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